Carne al vado - 978-88-6771-841-2

Autore : Massimiliano Morescalchi
Anno di produzione : 2022
Casa Editrice : Edizioni Il Ciliegio
Genere letterario : Narrativa - Storico
Formato : Cartaceo
Quarta di copertina
Altre Notizie : Smooth-Espresso Mikel


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Il problema con la Vita è che ti frega sempre. Hai voglia a bluffare. Sa sempre quali carte hai in mano.
Che poi, diciamocelo.
La maggior parte delle volte sono carte di merda. Ti sbatti come una trota presa all’amo per fare una misera coppia, e quella bastarda ha un full d’assi di prima mano. È una partita persa prima ancora di cominciare a giocare.
Ho imparato a giocare a poker a New York. Non ho ancora capito cosa cazzo ci sono andato a fare a New York… ma quando scappi mica lo sai dove vai a finire. Corri con la testa voltata indietro. Mi è andata pure bene. Non avrei scommesso una sola fiche che sarei invecchiato. E invece.
Pensare che ho imparato pure a leggere. Me ne sto qui, a novantatré anni suonati, a guardare di continuo questo dannato fiordo con un libro di Ibsen in mano. Se lo sapesse la mia mamma che mi sono messo a leggere gli scrittori veri, quelli importanti! Lei me lo diceva sempre, non è che se fai il pecoraio devi essere per forza ignorante come le pecore. E faceva venire di nascosto la maestra del paese vicino perché mi insegnasse a leggere. Di nascosto dal babbo, ovviamente. Che se lo veniva a sapere era un bel casino. Per lui se facevi il pecoraio l’unica cosa che dovevi sapere era come si portano le pecore. Il resto era una perdita di tempo. E di soldi che non aveva. Quei pochi aveva il diritto di berseli all’osteria del paese, che se non bevi fa freddo e cominci a pensare alla merda che ti sputa in faccia la Vita.
Scusa mamma, dico troppe parolacce. Non sono mai riuscito a smettere, nemmeno quando ho imparato a palare bene. Non so farne a meno, è una specie di dipendenza. D’altra parte, qualcosa dal babbo dovevo prenderla. Meglio le parolacce del bere, no? Lo sai che le dicono anche gli scrittori importanti? Sapessi quante ne ho imparate dai libri! Se l’avessi saputo, non l’avresti chiamata la maestra Agatina! Che non bastavano quelle che imparavo dai paesani? Sai mamma, i paesani non le sanno mica le parolacce più brutte. Ce ne sono di tremende. Ma io quelle non le dico, lo so che ti arrabbi tantissimo e poi ci stai male. E non ho mai offeso Dio. Sei contenta? Lo so che ti arrabbi quando la gente bestemmia. Me le ricordo le facce che facevi quando il babbo cominciava a tirare giù tutti i santi e le madonne. E come ti pesava non poter dire niente! Ma quello se lo facevi arrabbiare, altro che bestemmie! Però io quelle tue espressioni ce le ho stampate nella mente. E allora Dio lo lascio stare. Anche se non sono sicuro che ci stia, un Dio. E che se ci fosse non la pulirebbe questa merda? Magari si è rotto le palle pure lui. Io di sicuro.
Fa un freddo boia, qui. Bello è bello, per carità. Ma il freddo ti entra dentro e ti ghiaccia pure il cuore. Però penso che sia un posto giusto per morire. Intanto c’è poca gente. E tutti si fanno gli affari propri. Io passo anche una settimana intera senza vedere nessuno. Poi finisco la roba da mangiare e mi tocca andare all’emporio. Perché morire va bene, ma non di fame. Non è una morte dignitosa per un uomo. Quando la puttana viene a prendermi mi deve trovare bello pasciuto, come le pecore che allevava il babbo. Che magari una manata riesco pure a dargliela. O una tastata sul culo. Sono secoli che non tasto il culo di una donna. E che ci vuoi fare, a una certa età neanche è dignitoso. Però c’ho una voglia, mamma. Lo so che non le dovrei raccontare proprio a te queste cose. Ma non saprei a chi altro dirle. Sai, non è una questione sessuale. Ormai. Saranno quasi vent’anni che se ne sta lì buono buono. Ma quant’è bello il culo di una donna! Non esiste cosa più bella su cui mettere le mani. Se penso che non lo farò mai più mi viene da piangere. E allora, se mi scappa, quando la Signora con la falce viene a prendermi, io una tastatina ci provo a dargliela. Tanto che mi fa? Speriamo che abbia un bel culo. Ho letto un libro che descrive la Morte come una bella donna dalle gambe lunghe e un culo da paura. Sai, tu avresti detto che è volgare, ma non ti puoi immaginare quanto fosse bravo, quello scrittore. Scriveva col linguaggio degli uomini semplici, ma sapeva dire le cose che io non sono mai riuscito a esprimere. E mica è un dono da poco, sai? È un’arte. Come dipingere un bel quadro. O suonare uno strumento.

Una giornalista di un piccolo giornale aretino, Sofia Gallorini, mentre si trova in un piccolo paesino di montagna del Casentino per un servizio di importanza marginale, si imbatte in una targa che racconta la leggenda di un uomo che uccide sette fratelli per vendicare l’assassinio della sorella, moglie di uno di loro. Alla ricerca di una storia che le permetta di smettere di scrivere articoli futili di cronaca locale e le spalanchi la strada di una carriera letteraria, si mette sulle tracce di quest’uomo nella speranza che non si tratti soltanto di una leggenda. In realtà quest’uomo esiste, si chiama Geremia Zucchi e vive in un piccolo paese della Norvegia. L’uomo acconsente a raccontare la propria storia perché diventi un libro.
La storia è narrata con continui salti temporali: il racconto dei giorni nostri, l’amicizia che nasce con la giornalista e una parte della narrazione sotto forma di intervista; la narrazione del passato attraverso la scrittura di Sofia che inizia a realizzare il suo libro.
Attraverso la vita di Geremia si narrano alcune vicende rimaste “nascoste” della guerra di resistenza, del governo Alleato e della sua occupazione di Livorno dalla fine della guerra al 1947, della questione ebraica e del trattamento riservato ai reduci dei lager dal governo britannico, inclusa la vicenda della nave “Exodus”.