La sabbia è come il dubbio, si infila dovunque.
Quando pensi di esserti ripulito per bene e di averla scossa completamente, te la ritrovi tra i capelli, incastrata tra le ciglia, sotto le unghie. La sgranocchi tra i denti come quando mangi la marmellata di more.
Si infila nello zaino, si intrufola tra le pagine della «Settimana enigmistica» e impedisce alla stilografica di scrivere fluentemente. Spunta negli interstizi del tascabile che riempie la tua giornata sulla spiaggia, l’indagine di Montalbano che ti isola dai bambini urlanti. Si nasconde negli auricolari delle cuffie, e da lì intraprende il suo viaggio all’interno delle orecchie, rendendo doloroso l’ascolto degli Oasis.
Attende il tuo ritorno dal tuffo rinfrescante, accoglie la tua pelle bagnata incollandosi dappertutto in un abbraccio urticante che solo i bambini sembrano ignorare. Riempie il tuo telo facendosi beffe di tutti i tuoi sforzi per fare in modo che questo non succeda. Hai voglia a tendere le estremità dell’asciugamano e ad alzarti con la stessa cautela di una madre in mezzo ai propri cuccioli addormentati. La sabbia ti frega. Sempre.
La sabbia racconta tante storie. Storie difficili da leggere, perché vengono cancellate continuamente e subito sostituite da altre altrettanto fugaci e precarie. È più semplice leggerle d’inverno, quando la spiaggia non è invasa dall’orda dei vacanzieri, ma è solcata solo dai passi di chi il mare lo vive tutto l’anno. Allora la sabbia ti lascia messaggi più facili da interpretare: le orme di un cane solitario in cerca di cibo o degli spruzzi della schiuma, i segni degli zoccoli dei cavalli del vicino maneggio che trasportano annoiati inesperti fantini, le impronte dei piedi di una madre e del suo bambino che passeggiano insieme mano nella mano, i passettini ravvicinati degli scarabei della sabbia che sembra camminino in perpetuo senza uno scopo.
Io sono diventato bravo a leggere le storie che la sabbia racconta. Ce ne sono di divertenti, di allegre, di comiche. Ma anche di tragiche e disperate. Storie di vite che sfuggono dalle mani, in silenzio, senza attirare l’attenzione. Storie che non riesci a trattenere, neanche se stringi forte i pugni. Storie di vite anonime, che passano senza che tu te ne accorga. Storie di persone sole in mezzo alla gente festante, ombre fugaci, orme che vengono presto cancellate dalla risacca o da altri mille piedi indifferenti. Vite sommerse, come scogli solitari nei giorni di alta marea. Uomini invisibili. Storie che nessuno vuole ascoltare. Storie fastidiose, come sabbia nelle mutande.
Sulla spiaggia del litorale pisano si incrociano le vite sommerse e talvolta disperate di Babacar, immigrato che non vede la sua terra e la sua famiglia da più di cinque anni, Tommaso, adolescente chiuso in sé stesso e vincolato a un futuro dorato scritto per lui dal padre notaio, il Vecchio e Salvatore, due pescatori guidati da pochi ma imprescindibili principi morali. Tra questi personaggi nascerà prepotente un’amicizia che mostrerà loro la necessità di continuare a vivere anche quando la ragione sembrerebbe suggerire il contrario, perché il senso della nostra esistenza si rivela a noi sotto forma di piccoli piaceri quotidiani amplificati dal sentimento che proviamo per le persone che ci amano. Il racconto delle loro vite è attraversato da un binario di diverso registro, costituito dal dialogo tra il narratore e il mare, che si raccontano vicendevolmente delle storie volte a cercare di comprendere il significato più profondo della Vita e delle esistenze di ogni essere vivente. Tra queste storie, il racconto del naufragio dell’Utile nel 1761 e la lotta per la sopravvivenza dell’equipaggio insieme al suo carico, 160 schiavi comprati illegalmente dal capitano. L’isola su cui naufragano è la piccolissima Isola di Tromelin. Il racconto delle vite di due artisti ebrei nel ghetto di Terezinestadt vuole poi evidenziare la potenza dell’arte e della poesia, della bellezza e della dignità di fronte all’orrore dell’odio umano.